Il personaggio è stato indubbiamente famoso, su questo nulla da dire. Uno dei grandi chitarristi blues che hanno fatto la storia del rock, perlomeno fino ad un certo punto. Si, perché nel caso di Peter Green si può parlare di fama, successo e gloria fino al 1970. Dopo, la sua vita, la sua musica, scompaiono nella nebbia, si assestano tra le pieghe della storia senza più trovare le luci della ribalta.
Considerato, a torto, sempre un gradino sotto rispetto ai vari Clapton, Page e Beck, Peter Green ha in ogni caso illuminato con la sua chitarra una porzione di quel british blues molto in voga negli anni ’60, divenendone uno dei personaggi principali. Chiamato da Mayall a sostituire Eric Clapton nei suoi Bluesbrakers nel 1966, dopo aver registrato A Hard Road decide di lasciare il gruppo e il suo leader per costituire, insieme al batterista Mick Fleetwood, anch’egli con Mayall, i Fleetwood Mac.
Con loro registra tre lp in studio, e un imperdibile doppio album per la Chess a Chicago insieme ai più grandi bluesmen americani, frutto di una session con Buddy Guy, Otis Spann e Willie Dixon fra gli altri. Scrive alcuni tra i più venduti hit singles dell’epoca, una Black Magic Woman portata alla fama da Santana, Albatross, Oh Well e altri piccoli gioielli incastonati nel racconto della musica rock. Ma Green è personaggio e musicista irrequieto, insoddisfatto delle canoniche 12 battute del blues, delle cover o dei cliché del genere. E gli sta stretto, molto stretto, il mondo dello star system, della gloria e della notorietà, dei soldi e dei tour con i Fleetwood Mac. Il 20 maggio del 1970 lascia il gruppo dopo una serie di contrasti con Mick Fleetwood e gli altri dovuti, si dice, all’ uso eccessivo di droghe, in particolare di LSD. Un mese dopo registra il suo primo album solista, The End Of The Game.
Questo, in breve, il contesto che tratteggia il percorso di Peter Green, la sua evoluzione, o per alcuni la sua dissoluzione. In realtà The End Of The Game è uno di quei dischi di culto, privo di successori e unico testimone di un lampo accecante di creatività e follia. Quei dischi prodotti da musicisti strambi, originali, sempre in fuga da una successione degli eventi scontata o rituale. Syd Barrett è stato forse uno dei più famosi esempi di questa bizzarra e dolorosa, il più delle volte va detto, galleria. Peter Green ne è un altro, ancorché meno famoso.
Mi sono imbattuto in Peter Green circa dieci anni dopo la pubblicazione del suo primo disco, proprio in occasione della ristampa, tra l’altro in versione economica. La rivista di fumetti Totem aveva, al suo interno, una rubrica gestita da Antonio Tettamanti che, in due paginette, dava spazio a libri, cinema e musica. Nel numero di luglio 1980 c’era la recensione di Little Dreamer, terzo album solista di Green ma secondo dal suo ritorno sulle scene nel 1979. E lì Tettamanti, ovviamente, utilizza mezza pagina del suo scritto per parlare e tessere gli elogi di The End Of The Game, consigliandone vivamente l’acquisto.
Tuttavia ciò che mi colpì furono le vicende legate al chitarrista, questo suo voler fuggire dal successo, il desiderio di elargire tutti i suoi soldi in beneficenza, oppure le voci che si susseguirono dopo The End Of The Game sulla sua scomparsa: barelliere in un ospedale, fuga in Bangladesh, poi in un kibbutz in Israele ma contemporaneamente l’idea e la voglia di unirsi all’OLP, ricoveri in ospedali psichiatrici e arresto per possesso di armi. Insomma, il tipico campionario della star maledetta a cui va aggiunto l’abbandono di tutte le sue chitarre compresa la sua mitica Les Paul.
Con una biografia del genere fu chiaro che l’acquisto di The End Of The Game doveva essere obbligatorio. E così fu.
La fine del gioco
L’inizio in sordina, un fade in inquietante che introduce Bottoms Up, una cavalcata psichedelica, energica e robusta. L’agile basso di Alex Dmochowski (negli Aynsley Dunbar Retaliation, ma anche con Zappa!) e l’incalzante batteria di Godfrey McLean (nei The Grass) sostengono e dissodano il terreno all’ improvvisazione stellare di Green. Una chitarra che sembra avvolgersi intorno alla ritmica per poi emergere in assoluta limpidezza, con quel vibrato commovente misto al wah wah di hendrixiana memoria. Il sapore è quello di una session, libera e priva di forme, ma la musica che scorre è di assoluto valore. Per dare coordinate di riferimento, sembra di essere a cavallo tra Bitches Brew di Miles Davis e la Dark Star dei Grateful Dead, con uno spettro sonoro ancorato al blues ma completamente trasfigurato, trasformato in lava incandescente. Siamo lontani dai Fleetwood, e forse siamo lontani anche dalla Terra, le invocazioni di Green ci portano in altri mondi, in territori inesplorati e inauditi.
Tuttavia, c’è ancora spazio per il Delta, per il richiamo al blues in solitudine, scarno e allo stesso tempo colmo di significati, di ansie e speranze per un futuro incerto. Un tempo senza tempo, Timeless Time, splendido acquerello appena accennato da un Green delicato e toccante. In Descending Scale entrano consistentemente in ballo altri due attori di questo lavoro: Zoot Money al piano e Nick Buck all’organo, musicisti abili ed esperti in ambito rock blues. E qui la chitarra di Green sembra trasformarsi in voce umana, lanciando grida dolorose tra crescendo parossistici e sonorità dissonanti. Ma poi tutto si placa, e le note languide di Peter si adagiano sul pianoforte, scorrono delicate nei meandri del brano, rilassandosi dolcemente.
La seconda facciata del disco si apre con il sommovimento a bassa intensità di Burnt Foot, un fitto dialogo tra chitarra e ritmica ed un intenso finale contraddistinto da un ostinato incalzante. Hidden Depth è una dolce ed eterea ballad, dal vago sapore orientale e con il piano che fornisce la cornice alle vibranti ed evocative note di Green. Il disco si chiude con il brano che dà il titolo all’intero lavoro. Una chitarra che improvvisa libera, quasi irraggiungibile, commentata da basso e batteria, grappoli di note alternati a singoli suoni che crescono e alla fine irrompono in una landa deserta, fatta di silenzi e suggestioni. Le poche note di Green sembrano lacrime che scorrono sul viso, quasi a preannunciare l’abbandono, la fine del gioco per l’appunto.
A parte qualche breve apparizione Peter Green scomparirà dalle scene fino al 1979, quando pubblica, tra le sorprese, In The Skies, un onesto disco di rock blues, assai lontano dall’immaginario di The End Of The Game. Il suono della chitarra è sempre lì, alto e struggente, ma la musica non c’è più. O meglio, non è più quella di prima.
La forza di The End Of The Game è stata quella di una musica visionaria e selvaggia allo stesso tempo, scintille di suoni e profonde meditazioni. Peter Green ha tolto il cantato, le strofe e i ritornelli, le 12 battute e i canonici assoli, ha destrutturato e ampliato la materia, l’ha trasformata e rese incandescente, ma lui è rimasto sempre lì, più forte e affascinante di prima: il Blues. Ne avremmo dovuto seguire le tracce.
Il 25 luglio 2020, all’età di 73 anni, Peter Green ci ha lasciati definitivamente, chiudendo il gioco della sua vita. E l’ha fatto nel migliore dei modi. Nel sonno!