Una delle maggiori difficoltà di fruizione dell’improvvisazione libera, al di là di dissonanze, rumorismi e ardite e complesse trame melodiche, sembra essere la mancanza di forma. O perlomeno di forme solitamente conosciute.
In breve, l’ascoltatore si trova smarrito di fronte ad un fluire degli eventi di cui non riconosce confini, percorsi, dettagli, che anzi sembrano portarlo in territori sconosciuti. Eppure dovremmo essere lieti di poterci avventurare, ancora, in mondi nuovi anche se a prima vista, o meglio a primo ascolto, ci troviamo disorientati o perfino spaventati.
Ma è effettivamente così l’improvvisazione libera? Cioè, stiamo realmente parlando di musiche prive di qualsiasi forma, semplicemente suoni e melodie libere di fluttuare, completamente scevre da ogni ipotesi organizzativa?
In realtà siamo sempre in presenza di una forma, seppur sconosciuta. Possiamo definire come elemento base una forma assolutamente personale, cioè di pertinenza esclusiva del musicista che nel corso della sua improvvisazione stabilisce territori e confini del suo agire. Ovviamente, tutto questo va ad intrecciarsi con le forme personali degli altri musicisti con i quali si sta improvvisando. E questo crea tensione, anche disagio a volte. Non è detto che si arrivi ad un compromesso, oppure, ancora meglio, ad una piena condivisione di forme personali. Ma questo non significa essere in presenza di una cattiva o inefficace improvvisazione. Tutto sommato anche lo scontro di forme produce buona musica, crea energia e compresenza di diversi gradi di lettura, una sorta di evento multi strato , complesso e allo stesso tempo espressivo, efficace.
Più spesso, comunque, l’improvvisazione libera collettiva produce delle aree sistemiche, degli agglomerati che partono da elementi semplici, primordiali, e che, nel migliore dei casi, vengono sviluppati e approfonditi fino a creare dei paesaggi sonori. Il fluire di queste aree sistemiche produce il susseguirsi di diversi paesaggi sonori che rendono il prodotto artistico una sorta di viaggio mentale.
Questo viaggio che intraprendiamo, sia come musicisti che come ascoltatori, prevede uno sforzo di comprensione, culturale e direi anche fisico, che permette ad entrambi gli attori dell’evento di avere una connessione che può essere di qualità differente a seconda della bontà dell’improvvisazione. Ovviamente non sempre questa connessione avviene, ma la stessa cosa può succedere per qualsiasi tipo di musica e, più in generale, di produzione artistica. Non nego che molte volte è lo stesso musicista a complicare la relazione con l’ascoltatore, vuoi per volontà o per incapacità.
Ritengo invece sia indispensabile poter rendere intellegibile, all’interno delle modalità e possibilità della nostra espressione artistica, ciò che produciamo gettando segnali/forme che siano in grado di trasportare l’ascoltatore nel nostro paesaggio sonoro. Senza piaggeria ovviamente. Altrettanto importante è che il pubblico si ponga con apertura mentale all’evento, provando ad interpretare le aree sistemiche, per poi farsi trasportare dal fluire della musica e contemplare i paesaggi tratteggiati dai musicisti.
Ritengo invece sia indispensabile poter rendere intellegibile, all’interno delle modalità e possibilità della nostra espressione artistica, ciò che produciamo gettando segnali/forme che siano in grado di trasportare l’ascoltatore nel nostro paesaggio sonoro. Senza piaggeria ovviamente. Altrettanto importante è che il pubblico si ponga con apertura mentale all’evento, provando ad interpretare le aree sistemiche, per poi farsi trasportare dal fluire della musica e contemplare i paesaggi tratteggiati dai musicisti.
Si potrebbe persino tentare una correlazione tra un concerto di musica improvvisata e una mostra d’arte contemporanea. Prendendo spunto dal bel libro di Ted Gioia “L’arte imperfetta. Il jazz e la cultura contemporanea“, credo che per la musica improvvisata sia altrettanto importante la performance che l’opera prodotta, proprio come l’arte di Pollock. La connessione spirituale fra gli artisti e il pubblico che si stabilisce durante il concerto, la creazione istantanea di paesaggi sonori, consente allo spettatore/ascoltatore una maggiore intelligibilità delle forme in quanto investito fisicamente e integralmente dall’atto creativo, non mediato dall’oggetto di riproducibilità sonora.
Ed a proposito di Pollock, io penso che all’arte contemporanea venga concessa molta più intraprendenza, audacia e sperimentazione di quanta ne venga data alla musica. E’ come se ancora pretendessimo dai musicisti il figurativo, il bel tratto di pennello, l’armonia delle forme e le giuste proporzioni, la prospettiva. Tutto ciò che a Burri o a Rothko non viene assolutamente chiesto. Giustamente!