Il clarinetto basso, rispetto al suo nobile antenato, è stato uno strumento che, in ambito jazz, è entrato praticamente subito nella modernità. Grazie a Eric Dolphy si è inserito appieno nei linguaggi sperimentali e contemporanei e il musicista afroamericano ne ha tracciato, fin dal suo esordio, le coordinate future. Anzi, si può dire che per certi versi Dolphy ha fatto per il clarone quello che Benny Goodman ha fatto per il clarinetto: ne ha posto una seria ipoteca stilistica dalla quale è stato difficile uscirne o prenderne le distanze. A parte Harry Carney, che talvolta lo alternava al sax baritono nell’orchestra di Ellington, il clarinetto basso è apparso sulle scene con l’arrivo di Eric Dolphy, a fine anni ‘50. E poi, lentamente ma con costanza, è stato utilizzato con successo da altri musicisti, primo fra tutti Bennie Maupin, peraltro uno dei pochi a differenziarsi stilisticamente da Dolphy.
Tutto questo per dire che, a un certo punto, lo strumento cominciò ad incuriosire gli ascoltatori e anche i musicisti stessi, fino a coinvolgere e conquistare, seppur brevemente, uno dei rari clarinettisti bopper, Buddy De Franco. E la ragione della presenza di questo musicista in questa rubrica è doppia: sia come unico, vero clarinettista bop, accanto a Tony Scott certamente, ma rispetto a quest’ultimo meno interessato alle bizzarrie, alla spiritualità orientale o alle sfuriate quasi vicine al free, bensì strettamente legato al linguaggio parkeriano, quasi calligrafico, ma con uno strumento che di quel linguaggio ne era stata la vittima. L’altra ragione riguarda proprio De Franco e il clarinetto basso e la vedremo più avanti.
Di chiare origini italiane (come molti clarinettisti), nasce in New Jersey nel 1923 ma cresce a Philadelphia e, dopo una prima esperienza al banjo, passa subito allo studio del clarinetto. Già all’età di quattordici anni vince il premio Tommy Dorsey quale miglior clarinettista e inizia subito a lavorare con le orchestre swing, all’epoca sulla cresta dell’onda. Sfortunatamente lui è ancora troppo giovane per assaporarne pienamente i successi e, dopo la Seconda guerra mondiale, il fenomeno Swing, e di conseguenza le orchestre, iniziano ad andare in crisi. A differenza dei vari Goodman, Shaw, Herman, lui però non si rassegna a fare da comparsa o a ritirarsi e decide di continuare a suonare anche quando viene investito dal ciclone Be Bop, che rivoluziona il jazz e lo riporta nelle mani e nelle note degli afroamericani. Ma soprattutto, a causa anche delle sonorità più forti e potenti, il clarinetto, complice il suo recente passato di strumento swing a forte impronta bianca, praticamente scompare a favore di sassofoni, trombe, persino tromboni. De Franco non molla, non cambia e, insieme ad un altro grande outsider come Tony Scott (che peraltro suonava talvolta anche il sax) accetta la sfida bop e converte il suo complicato strumento al nuovo linguaggio.
Fraseologia ricca, suono pieno, grande abilità e virtuosismo, completa padronanza in ogni registro, Buddy De Franco per anni viene votato come miglior clarinettista, anche se spesso questa sua grande bravura lo rende talvolta freddo, oppure poco innovativo, attento soprattutto a mostrare il suo grande talento. Ma ascoltarlo su disco (e immaginiamo anche dal vivo, ovviamente) è uno spettacolo, denso com’è di fraseggi veloci, volate, arpeggi e porzioni melodiche di rara efficacia. Insomma, a ribadire ciò che si è detto sopra, una sorta di Parker del clarinetto, detto così per semplificare. Purtuttavia il personaggio si è sempre limitato ad ambientazioni mainstream, raramente si è avventurato in territori impervi, sperimentali o fuori dai clichè. Album con Art Blakey, Oscar Peterson, Sonny Clark ma anche Count Basie, Art Tatum, Terry Gibbs, fino a dirigere, dal 1966 al 1974 la Glenn Miller Orchestra, che di fatto rappresenterà una sorta di prepensionamento per uno degli ultimi bopper ancora in circolazione.
A rompere questo quadro abbastanza coerente e stabile arriva, nel 1964, la proposta di Leonard Feather di registrare un album che si iscrivesse nell’alveo del nuovo jazz, seppur non propriamente free, comunque distante dal mainstream così come dal classico bop. Una sorta di sfida ma anche una possibilità di traghettare nella modernità un personaggio che fino ad allora se ne era tenuto abilmente fuori, soddisfatto com’era della sua attività artistica. Curiosamente, un’operazione che ricorda ciò che il trombonista Marshall Brown aveva fatto proprio in quegli anni con Pee Wee Russell, altro clarinettista. Evidentemente lo strumento e i musicisti che lo suonavano invogliavano ad operazioni del genere, o più semplicemente si tentava di rincorrere il mercato, provando a destare attenzioni su personaggi che erano rifluiti nelle retrovie del jazz.
Pianista, giornalista e critico musicale britannico (ma nel 1939 si stabilì a New York), Leonard Feather è stato un personaggio fondamentale per la musica jazz, sia come produttore che come musicista, compositore nonché divulgatore e storico. Personaggio unico e attivissimo anche nel campo dei diritti civili, Feather, evidentemente colpito dai lavori di Eric Dolphy, morto tragicamente nel giugno del 1964, propone a De Franco, per il nuovo disco, di rinnovare la sua estetica a cominciare proprio dallo strumento. È vero che clarinetto basso e clarinetto sono stretti parenti, ma per Buddy De Franco di certo rappresentava comunque un deciso cambio di rotta, tanto più che inevitabilmente si sarebbe dovuto confrontare con il fantasma di Dolphy, unico fin lì a suonare stabilmente quello strano clarone. Ma la mutazione non doveva solo essere strumentale, bensì anche di repertorio e quindi oltre a Blues Bag dello stesso clarinettista, a Straight No Chaser di Monk e a Kush di Dizzy Gillespie, vengono inseriti nella lista Blues Connotation di Ornette Coleman e Cousin Mary di John Coltrane, oltre a Rain Dance di Victor Feldman e a Twelve Tone Blues proprio di Leonard Feather. A fianco di Buddy De Franco una line up anche qui particolare e innovativa: Victor Feldman al piano, già con Miles Davis in Seven Steps To Heaven e con il quale De Franco aveva in passato collaborato, il suo vecchio amico Art Blakey (in questo disco con il nome musulmano Abdullah Buhaina), Victor Sproles al contrabbasso, con Blakey nei Messengers di quegli anni, e una serie di ospiti significativi come Lee Morgan e Freddie Hill alle trombe e Curtis Fuller al trombone. Questo, in sintesi, è Blues Bag, registrato nel dicembre 1964 e pubblicato l’anno successivo dall’etichetta Vee-Jay con il sottotitolo Leonard Feather’s Encyclopedia Of Jazz – Jazz Of The 60’s Vol. 2. Messa così sembra un’operazione tipicamente Blue Note anni ‘60, con quella voglia di sperimentare e di produrre album dal taglio innovativo pur legati strettamente ad un jazz di derivazione boppistica. In realtà siamo dalle parti dei Jazz Messengers, meno energici e più delicati, e l’operazione modernità è abbastanza sterile, per alcuni versi. Partiamo innanzitutto dal leader e dalla sua sfida. Ovviamente, dal punto di vista stilistico, non c’è assolutamente nessun accenno ad una modalità sperimentale o di derivazione dolphiana, a parte qualche urletto strozzato, bensì un adeguare il clarone, così goffo e complicato, al linguaggio dello strumento principale di De Franco, il clarinetto. E quindi, paradossalmente, questo disco ha il pregio di farci ascoltare qualcosa di raro, unico, quasi irripetibile: e cioè il clarinetto basso piegato ad un be bop classico, con le tipiche scale e un fraseggio pienamente inserito in quello stile. Nessuno ha mai trattato lo strumento in quel modo, da un lato perché il clarinetto basso è strumento ostico e in parte inadatto a certe latitudini ma dall’altra anche perché l’eredità dolphiana ne ha segnato l’evoluzione e gli approcci. E infine perché è apparso sulle scene proprio quando il patrimonio parkeriano era già stato trasformato e rivoluzionato dal free e dalle esperienze contemporanee. Questa particolarità, questa unicità, depone certamente favore del disco, al di là delle qualità e del valore artistico.
Tra segni di pesantezza, esitazioni e qualche manierismo di troppo De Franco riesce comunque a trasporre quasi completamente il suo tipico fraseggio nel nuovo strumento, evidenziando la classe e la destrezza del musicista, anche a fronte di evidenti difficoltà. Ma abituati alla bellezza formale, alla perfezione dei suoi assoli, quelle incertezze, quei suoni fragili e quelle pause, per uno che colmava tutto lo spazio a sua disposizione, assumono un carattere consistente, risaltano con forza. È anche questo che rende curioso e particolare questo disco, completamente votato al blues e alle sue differenti forme. La prova più convincente è sul brano di Gillespie, Kush, un veloce valzer nel quale il clarinetto basso di De Franco emerge con quel suono scuro e misterioso sopra un pedale in Do minore. Qui, dove non ha bisogno di cambiare accordi e scale, riesce a tirare fuori il meglio dallo strumento e sia l’introduzione che l’assolo sono di ottima qualità. Ma anche su Cousin Mary De Franco è efficace, pur mostrando ogni tanto le sue innegabili difficoltà, e l’eccezionale drumming di Blakey ne intreccia le abili linee improvvisative, mostrando l’elevato grado di interplay tra i due. Curioso è invece Twelve Tone Blues, il brano scritto da Feather e ispirato al sistema dodecafonico di Schoenberg, che ne fa una sorta di blues alla Third Stream. Sia Lee Morgan che De Franco utilizzano la scala esatonale per le loro improvvisazioni, ma i risultati sono alquanto differenti. Là dove il terreno si fa più avventuroso, più sperimentale, i tratti caratteristici di De Franco emergono in tutta la loro forza determinando difficoltà espressive, accentuate dall’impossibilità di ricorrere pienamente al virtuosismo del suo clarinetto. Per quanto riguarda invece Lee Morgan, sia su questo brano che su Rain Dance, mostra tutta la sua ricchezza di linguaggio e creatività in splendidi assoli, ben coadiuvato da un Feldman in ottima forma e da una ritmica dal moto incessante. Resta da dire di Curtis Fuller, che avvicina, soprattutto in Rain Dance, le sonorità e le atmosfere di questo disco ai Jazz Messengers, mentre Freddy Hill, l’altro trombettista, è presente solo su Blues Connotation, dove il brano colemaniano viene inquadrato e trasformato in un semplice blues, lontano certo dalle idee del sassofonista.
In definitiva, siamo in presenza di un buon disco di jazz, nulla più nulla meno. Ma curioso per questo uso, diciamo così, abbastanza tradizionale di uno strumento come il clarinetto basso che tradizionale non era. E soprattutto, registrato e pubblicato a poca distanza dalla morte di colui che di quello strumento ne aveva fatto la propria identità stilistica e lo aveva mostrato al mondo in tutto il suo fascino e la sua complessità: Eric Dolphy. Chissà cosa ne avrebbe pensato. In ogni caso l’esperimento finì lì. De Franco non si avventurò più tra le insidie del clarone, forse scottato da questa esperienza, e tornò alle agili e svolazzanti note del suo clarinetto.