A dirla tutta lui in questa rubrica, fatta di storie controverse, dimenticate o ignorate, sottovalutate e maledette, non ci dovrebbe essere. Chi mai potrebbe dire che Lewis Allan Reed, in arte Lou, non abbia avuto fama, successo, gloria e riconoscimento per la sua lunga carriera di rocker, sì maledetto ma non certo trascurato. E allora perché scrivere su un personaggio che ci ha lasciato solo qualche anno fa ma che non ha mancato, nella sua vita e anche ora che non c’è, di allietare milioni di ascoltatori, ricevendone lodi e, talvolta, anche critiche o disapprovazioni, ma sempre restando sulla cresta dell’onda? Oddio, proprio sempre non è del tutto corretto. Si, perché il nostro Lou ha avuto, anche lui, i suoi momenti d’ombra, incompreso e anche fatto oggetto di critiche spietate. Non sto parlando del suo controverso e provocatorio doppio album Music Metal Machine o anche della strana collaborazione con Don Cherry in The Bells, oppure dei live anch’essi provocatori, di alcune sue interviste e dichiarazioni irritanti, indisponenti, talvolta persino offensive. No, tutto questo non ha fatto altro che ingigantire la sua figura di rocker e di artista eccentrico, singolare. Più in linea con le storie di questa rubrica sono invece gli anni ’80 di Lou Reed, un decennio vissuto quasi in silenzio se confrontato con gli eccessi dei ’70 e gli esordi dei ’60, a volte ignorato dalla stampa, messo sotto accusa per una presunta vecchiaia precoce, un aver messo le pantofole troppo presto e aver lasciato da parte genialità, impeto e sperimentazione.
Eppure, quel decennio avrebbe di nuovo visto la consacrazione di Lou Reed come artista a tutto tondo, con la pubblicazione di quel capolavoro che è New York, uscito nel 1989 e che, in questo periodo, ha visto la riedizione in versione deluxe, con inediti e outtakes, booklet e dvd live. Ma come ci arriva il nostro Lou a uno dei suoi dischi fondamentali, come preannuncia e prepara lo sbocco al capolavoro, unanimemente considerato? Ecco, il percorso è abbastanza curioso ed è questo il motivo della sua presenza in questa rubrica. Si, perché i lavori di Lou Reed degli anni ’80 sono sempre stati considerati non proprio eccelsi, ben che vada. A volte stroncati dalla critica e anche dai suoi vecchi fans, gli album che precedono New York hanno vissuto pagine oscure, portato in ombra il suo autore fino ad arrivare a pensare che di lui ormai non c’era più niente di interessante da ascoltare, in poche parole che la sua carriera fosse arrivata al capolinea.
Il decennio si apre con la pubblicazione di Growing Up In Public che però stilisticamente è a tutti gli effetti un disco che guarda al decennio precedente e soprattutto cerca di tornare sulla retta via dopo le sperimentazioni di The Bells. In realtà è con The Blue Mask che Lou Reed annuncia questi suoi particolari anni ‘80, caratterizzati dalla pubblicazione di una serie di lavori con una omogenea e distinta estetica che poi, come detto in precedenza, lo porteranno a pubblicare New York. Iniziamo innanzitutto dalla presenza del bassista Fernando Saunders, dal suono rotondo, morbido e avvolgente che appare come elemento indispensabile e imprescindibile per il Lou Reed di quegli anni (ma non parteciperà alle registrazioni di New York). A fianco, tra gli altri, di John McLaughlin, Larry Young, Jeff Beck ma anche Pat Benatar, Saunders sarà una sorta di factotum di Lou Reed, suonando chitarre ritmiche, partecipando ai cori oltre a co produrre Mistrial, nel 1986. È abbastanza particolare la scelta di un bassista così virtuoso e spesso in primo piano, soprattutto a fronte di un irrobustimento delle sonorità, con l’abbandono quasi totale di tastiere e pianoforte a favore di due chitarre secche, ruvide ed essenziali. E qui veniamo alla seconda novità, soprattutto per quanto riguarda The Blue Mask e, in misura minore, Legendary Hearts: la presenza di Robert Quine, storico chitarrista punk, con Richard Hell & The Voidoids ma anche con John Zorn e, successivamente, in Rain Dogs di Tom Waits. Ecco, volessimo racchiudere in poche parole il suono di Reed in questo periodo, potremmo definirlo una specie di rock fusion, dove le chitarre danno robustezza ed essenzialità, mentre il basso di Saunders riporta al virtuosismo di un certo jazz rock o, per l’appunto, della fusion. Uno strano mix che indubbiamente colpisce nel segno, dando a Reed la possibilità di tornare a suonare la chitarra, anche in versione solista, come avverrà, dopo l’allontanamento di Quine, in New Sensations e Mistrial, e di esaltare la sua voce, quasi parlata, ormai, discorsiva. È un cambiamento importante e questa essenzialità, questo timbro scarno ma di grande fascino, ammorbidito dalle evoluzioni e dalle incursioni tematiche del basso, saranno la cifra stilistica di Lou Reed anche per gli anni a venire. Ma torniamo agli anni ‘80 e a The Blue Mask, considerato dalla maggior parte della critica il suo disco migliore del decennio a parte, ovviamente, New York. L’inizio del disco, con la bellissima My House, mostra chiaramente subito tutto il nuovo armamentario: una eterea ballad che parte con il basso in primo piano, a corredo di una voce che racconta e ricorda il vecchio maestro, scrittore e poeta, Delmore Schwartz, e chitarre tranquille, discrete. Ma il finale è tutto un furoreggiare di Quine che non si produce nel canonico assolo ma in aspri e graffianti accordi che rendono bollente il brano, dalle parti di un punk rock appena meno estremo. Eccolo qui il nuovo Reed, alle prese con il nuovo suono rock dopo la rivoluzione punk/new wave. È rilassato, contento della sua vita privata, ama le donne (Women, graziosa canzone che sprizza gioia controllata), rammenta il suo passato disastrato accennando ai riff alla Sweet Jane (Underneath The Bottle), e mostra ancora sussurri inquietanti con Gun o lampi incandescenti come in Waves Of Fear. E mentre Average Guy è un ironico e dissacrante autoritratto, è con la title track che Reed, insieme ai suoi nuovi compagni, straccia le vesti della sua musica, la graffia e ne fa uscire rivoli di lava. Insieme a My House, sono i momenti dove il lavoro eccezionale di Quine segna in modo pesante l’estetica di questo disco e lascerà profonde tracce anche nei successivi lavori. Da segnalare anche una Heroine in splendida solitudine, per un disco registrato in diretta (a parte la voce), affascinante e di grande impatto, ma che non convince del tutto i critici. O quantomeno li spiazza, spesso costringendoli a capovolgere o a mutare il loro giudizio a distanza di mesi, come avviene per esempio con Petitti, sul Mucchio Selvaggio dell’aprile del 1983, in occasione di una sua recensione del successivo lavoro di Reed, Legendary Hearts. Ma se appunto con The Blue Mask, tutto sommato, la svolta del nuovo Lou Reed viene generalmente apprezzata, anche se con distinguo e non unanimemente, con Legendary Hearts fioccano commenti negativi. La formazione è praticamente la stessa, a parte Fred Maher (nei Material di Bill Laswell) alla batteria in luogo di Doan Perry, la copertina sempre opera della moglie di Lou, Sylvia Morales, mentre la produzione, questa volta, è dello stesso Reed. Che limita il peso di Quine optando per un suono più morbido ma sempre caratterizzato dalla doppia chitarra e dal sinuoso e avvolgente basso di Saunders. Effettivamente la qualità dell’album è inferiore al precedente, forse anche per il ridimensionamento di Robert Quine, nondimeno il suono generale è ben definito, compatto, essenziale, come se Lou Reed fosse pienamente cosciente di aver trovato comunque la formula giusta. E tra suggestive ballad come Make Up Mind e incisivi rock blues come Martial Law, il disco dipana storie compassate, un giardino sul tetto in compagnia di Sylvia a guardare le luci della città (Rooftop Garden), sguardi su un passato dolente (The Last Shot) oppure fugaci e dolci momenti tra una luna sulla collina e il lago che si riflette in essa (Turn Out The Light). È un disco semplice per certi versi, ma toccante, meno ruvido ma ancora più scarno e diretto.
Il ridimensionamento di Quine non è altro che il preludio al suo allontanamento definitivo, non prima però del tour mondiale di promozione di Legendary Hearts dal quale scaturirà il bellissimo Live In Italy, tratto da due concerti effettuati a Verona e Roma nel 1983. È un disco con i suoi più famosi cavalli di battaglia (Sweet Jane, I’m Waiting For My Man, Satellite Of Love, Walk On The Wild Side tra gli altri) e qualche brano degli ultimi due dischi (Average Guy, Martial Law e Waves Of Fear) ma che ribolle di energia pura sotto il trattamento di Quine, e mostrano la raggiunta consapevolezza di Lou Reed nel percorrere questa strada fatta di sintesi e compattezza.
Ma torniamo ai nuovi lavori in studio, che sono il prodotto principale per identificare l’estetica anni’80 di Lou Reed. Come detto in precedenza, il nuovo album non vede più la presenza di Quine ma è lo stesso Lou (coadiuvato da Saunders) a farsi carico di tutto il lavoro chitarristico, persino in versione solista. A Saunders e Maher vengono affiancati alcuni collaboratori come Michael e Randy Brecker, sassofono e tromba (molto in voga in quegli anni) e addirittura Shankar al violino (in un solo brano), più backing vocals e accenni di piano e tastiere, in verità in misura molto limitata. Nonostante la presenza di collaboratori e l’assenza di Quine il suono rimane comunque essenziale, compatto e New Sensations, questo il titolo del nuovo lp, rimane sulla scia dei precedenti, pur evidenziando alcune sostanziali differenze. Innanzitutto, c’è una presunta, ma tutto sommato in parte vera, virata verso suoni più commerciali, dovuta sostanzialmente all’uso, in molti brani, della batteria elettronica. Ma non solo questo, è anche il tipo di scrittura di Reed che appare più orecchiabile, con riferimenti soul o accenni dance, abbastanza in linea con quello che accade in ambito pop e rock in quegli anni. Ma, anche a distanza di più di 30 anni (o forse proprio per questa distanza), il disco è bello, ricco di canzoni che lasciano il segno e, in alcuni casi, dei veri e propri gioielli, all’altezza dei vecchi capolavori. Tutto l’album è attraversato da striature spiritual (Fly Into The Sun, Turn To Me, High In The City) con la voce solista di Reed e i cori a fare da call and response, mentre brani come I Love You Suzanne e My Red Joystick si propongono come splendidi e spensierati hit singles. Ritmiche dance con batterie elettroniche affiorano qua e là, come nella title track, il violino di Shankar teatralizza la scura What Becomes A Legend Most e Doin’ The Things That We Want To ha un inizio suggestivo e misterioso. Chiusura affidata ad una sorta di rhythm ‘n’blues dal suono netto (The Great Defender), sintetico ma reso caldo dai brevissimi interventi solistici di Reed, che peraltro appaiono anche in altri brani del disco. Con una ventata di positività sia musicale che testuale, New Sensations entra nelle classifiche americane e inglesi e I Love You Suzanne diventa uno dei brani ad ampia rotazione nella programmazione MTV. Nonostante questa svolta in parte commerciale il disco riceve buone critiche, perlomeno in America, ma certo non viene considerato all’altezza dei vecchi album. Tuttavia, Reed prosegue imperterrito in questa sua nuova dimensione e, due anni dopo, nel 1986, pubblica Mistrial, ultimo disco del suo decennio breve. Anche per questo album il lavoro chitarristico è, praticamente, di suo appannaggio, salvo qualche chitarra ritmica suonata da Eddie Martinez e dall’onnipresente Fernando Saunders, che qui appare anche in veste di co produttore oltre che, ovviamente, di bassista (ma anche al piano, percussioni e cori!). Possiamo dire che la formula è la stessa di New Sensations: orecchiabilità, hit singles, echi soul/rhythm’n’blues, batteria elettronica, solito muro di chitarre con incremento di minimali interventi solistici di Reed. Si passa da un’energica e irresistibile title track alle dolci e sinuose ballad Don’t Hurt A Woman e Tell It To Your Hearth, dallo pseudo rap The Original Wrapper alla incisiva e ipnotica Video Violence. Tutto sembra funzionare alla meraviglia e, anche in questo caso, Lou Reed colpisce nel segno: Mistrial è un bellissimo disco e resiste, anzi, ne guadagna in brillantezza con il passare degli anni. Uno sguardo lucido sulla società e rimandi al passato ma anche alla sua dimensione serena, tranquilla, è quello che emerge dai testi, in questo caso una spanna sopra New Sensations. Il disco giustamente sale nelle classifiche mondiali anche se non convince, ancor più che il precedente lavoro, critici e fan della prima ora. Tre anni dopo pubblicherà New York e metterà, di nuovo, tutti d’accordo. Ma questa è un’altra storia.
Dunque, possiamo dire che questo decennio breve di Lou Reed, pur avendo sostanzialmente un’omogenea estetica generale, ha una sorta di divisione tra la prima parte, quella nella quale c’è Robert Quine e quindi un suono più sporco e distorto, e la seconda dove c’è un ammiccamento alle sonorità “moderne” dell’epoca, pur lasciando inalterate le caratteristiche sonore fatte di compattezza e essenzialità. E su tutto, il suono flessuoso, morbido e avvolgente del basso di Saunders che traccia pesantemente tutti e quattro gli album in studio più il live.
Rispetto a David Bowie, l’altro grande musicista e personaggio dalla lunga e articolata carriera, Lou Reed sembra prendere tardi le mosse alla rivoluzione punk/new wave avvenuta nel mondo popular. O meglio, pur avendo avuto l’intuizione di irrobustire e sporcare il suo sound ingaggiando proprio Robert Quine che, di quella rivoluzione ne era stato uno dei protagonisti, in realtà arriva un po’ in là con i tempi, quando quei suoni hanno lasciato il posto a tante altre mutazioni. E allora è come se provasse a rincorrere quella modernità, che per esempio Bowie coglie in pieno con il trionfo del suo Let’s Dance (1983), ma allo stesso tempo senza voler perdere quell’estetica che sente ormai pienamente sua, fatta di chitarre, concisione e semplicità. È un decennio breve ma fondamentale perché lo lancia nella sua nuova dimensione di rocker “adulto”, autore di veri e propri libri sonori e per nulla ripiegato su sé stesso oppure nella stanca riproposizione della sua immagine e della sua musica. In questo, proprio come il suo vecchio amico Bowie, è veramente uno dei pochi casi, in ambito rock, di musicista che per oltre quarant’anni riesce ad esprimersi creativamente riuscendo a cogliere i cambiamenti della società, a leggerne le tendenze, a interpretarle ed a offrirne una visione poetica e musicale sempre con estro e originalità.
Discografia
The Blue Mask, RCA 1982
Legendary Hearts, RCA 1983
New Sensations, RCA 1984
Live In Italy, RCA 1984
Mistrial, RCA 1986